TRATTATO DI SCIENZA MEDICA OMEOPATICA

Prof.ssa Enrica Moretti

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LIBERA OPERA PUBBLICATA A SCOPO DIFFUSIONALE DAL TITOLARE

DEPOSITATO PRESSO S.I.A.E. IN DATA 02/11/2005 - TUTTI I DIRITTI RISERVATI

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                                                                                                                              DEPOSITATO PRESSO LA SIAE

                                                                                                         IN DATA 02/11/2005

                                                                                                                 ALL RIGHTS RESERVED

Prof.ssa  Enrica Moretti

 

 OMEOPATIA VERA ED UNICA SCIENZA MEDICA

                                                         

 
 

 

                                                                  Dedico questo saggio a mio Padre

e colgo l’occasione per ringraziare gli amici

                                                         Claudia ed Amato Filabozzi,

                                                                        Pierdomenico Luzi e Rossella Marino

                                                                      che mi hanno stimolata a realizzarlo

                                                      ed, operando al computer,

                                                                                 ne hanno consentito la divulgazione in rete

                                                                 così da offrire a medici e pazienti

                                                  conferme scientifiche ed

                                                               opportuno indirizzo terapeutico.

 






Chi propone questo saggio sull’Omeopatia, o meglio sul meccanismo d’azione del rimedio omeopatico (R.O.), intende spiegare a quanti in buona fede riconoscono l’efficacia dei preparati omeopatici come e perché essi riescano a dare tanti e tali prodigiosi risultati.

Non tratterò quindi di argomenti relativi alle origini ed al significato di Omeopatia, argomenti già noti al lettore perché esposti da altri con sufficiente dovizia di particolari.

Dirò subito che il R.O. è l’ANTIDOTO delle TOSSINE che, bloccando nelle cellule dell’organismo il SITO ATTIVO degli ENZIMI-CATALIZZATORI delle reazioni biochimiche, ne alterano od inibiscono lo svolgimento determinando l’insorgenza dello stato di malattia.

I sintoma sensoriali, funzionali o lesionali accusati dal paziente debbono essere considerati sempre e comunque come il tentativo dell’organismo di riportarsi all’equilibrio annullando in qualche modo gli effetti nocivi delle tossine, nel pieno rispetto del Principio dell’EQUILIBRIO MOBILE o Principio di LE CHATELIER-BRAUN (1884) il quale afferma: ”Un sistema all’equilibrio, sottoposto ad un’azione perturbatrice, si sposta nel senso indicato da questa azione in modo da ridurne od annullarne l’effetto.”

E’ quanto accade, ad esempio, alla sottile e gracile canna di bambù quando, piegandosi nel verso del vento, non fa che assecondarne l’azione. Non si spezza, anche se a volte ciò potrebbe accadere per l’eccessiva violenza degli elementi come in alcuni casi di gravi patologie acute, proprio perché curvandosi ne annulla in qualche modo gli effetti conservando integra la capacità di oscillare.

E’ quanto accade a chi riceve una spinta e, per non cadere, per mantenere o riconquistare lo stato di equilibrio, si sposta nella direzione della spinta stessa.

A ben guardare, è il modo di agire del R.O. che, in quanto SIMILLIMUM, asseconda l’azione della forza perturbatrice dell’organismo.

Dal medico allopatico invece vengono prescritti al povero ignaro paziente, in quantità ponderali massicce, prodotti dell’industria, più o meno reclamizzati dai Mass Media,che hanno il solo scopo di sopprimere ogni manifestazione morbosa, dal dolore alla febbre, all’esantema, e così via, senza rimuovere la o le cause del dolore, della febbre, dell’esantema; senza curare, in una parola, l’individuo che soffre. E, quel che più conta, senza considerare ogni patologia come espressione di difesa dell’organismo o come tentativo messo in atto dall’organismo stesso per approdare alla guarigione.

Basti pensare, ad esempio, alla pratica nefasta delle vaccinazioni oggigiorno tanto raccomandata.

Il bimbo cui si impedisce la spontanea liberazione, attraverso l’esantema esterno, delle tossine ereditate da genitori e parenti affini, sarà predisposto a manifestazioni morbose vicarianti che interesseranno organi interni più delicati e più importanti della pelle ed accuserà cardiopatie, allergie, sintoma asmatiformi e quant’altro; quando invece morbillo, scarlattina, varicella, etc., curati omeopaticamente gli avrebbero consentito di vivere gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza in buono stato di salute.

Nell’adulto o, peggio ancora, nell’anziano cui mancasse o fosse deficitaria la naturale spinta emuntoriale, il vaccino introdurrebbe nuove tossine Sicotiche che altererebbero il già precario equilibrio organico con le ben note conseguenze che vanno dall’ipertensione alla motilità intestinale, agli stati d’ansia, e così via.

Il chirurgo che per l’intervento voglia ferri e garze sterili usa l’autoclave dove la temperatura di ebollizione dell’acqua può raggiungere valori di gran lunga superiori ai 100°C.

Il medico coscienzioso dovrebbe sempre dare ascolto al campanello di allarme che denunciasse una perturbazione a livello dei processi biochimici che regolano il nostro equilibrio psico-fisico.

Nessuno mai che si ponga alla guida di una vettura penserebbe di ignorare le indicazioni fornite dalle spie dei vari dispositivi predisposti a garanzia del buon funzionamento della vettura stessa. Come nessuno mai metterebbe a tacere le guardie di un palazzo che avessero il compito di avvertire il padrone di casa del pericolo incombente perché, così facendo, o il nemico avrebbe buon gioco e piena libertà di azione nell’opera di saccheggio e di confisca, o il padrone stesso, entrando in casa propria, potrebbe essere scambiato per il nemico dalle guardie sonnolenti o narcotizzate.

E’ quel che accade in tutte le forme allergiche e nei casi di patologie autoimmuni che tanto affliggono l’umanità ai giorni nostri.

Ad un bambino che nei suoi primi anni di vita accusasse intolleranza alimentare con diarrea cronica e rallentamento della crescita, come nel caso di morbo celiaco, ”il medico” prescrive di solito l’esclusione dalla dieta di alimenti contenenti le proteine nobili del glutine responsabile dell’atrofia dei suoi villi intestinali e, quindi ,delle sue sofferenze.

La stessa ”CURA” ovviamente potrebbe essere suggerita da chiunque non fosse laureato in medicina, perché questo chiunque non saprebbe e non potrebbe, al pari del medico, rimuovere le cause di tale patologia.

Guai provocare un arresto allo sviluppo nella fase più delicata ed importante della crescita di un individuo. La pianticella giovane ha bisogno di cure e di sostegno per poter affrontare con solidità e resistenza la temperie della vita e non dover  accusare nel tempo patologie ancor più gravi conseguenti a difetto di assimilazione, a denutrizione, a demineralizzazione od altro (rachitismo,scrofola,tubercolosi).

Come definire un tale comportamento? Irresponsabile, amorale, offensivo della dignità della persona o semplicemente contrario ad ogni principio di etica professionale?

Come da vecchie reminiscenze classiche: “Intelligenti pauca”.

Non è accettabile pertanto che da più parti si continui a ripetere con estrema disinvoltura ed assoluta malafede, direi anzi con estrema ignoranza delle più elementari nozioni di chimica, fisica e biologia, che il preparato omeopatico sia da considerare acqua sporca dall’effetto placebo.

Nel feto, nel bambino, nell’animale un tale effetto non avrebbe alcun senso ed il più ostinato denigratore dell’omeopatia non potrebbe mai negare l’azione morbigena del R.O. nell’essere sano se soltanto si prestasse a sperimentarla.

Non dovrebbe far altro che assumere, ad esempio, una semplice dose unica di Belladonna 200K per vedere svanire d’un colpo tutte le sue belle illusioni sull’effetto placebo!

“Contra facta non est argomentum” soleva ripetere anche il mio Maestro Prof. A. Negro commentando le false affermazioni, palesemente denigratorie, della falsa medicina.

E, del resto, quale miglior fatto della realtà inconfutabile che ben 11milioni di italiani si avvalgano con ottimo profitto della medicina omeopatica?

Che la mela matura cadesse dalla pianta sotto l’azione di una forza attrattiva, la stessa che ci permette di restare con i piedi per terra, era un dato di fatto ancor prima che I.NEWTON arrivasse a formulare la sua ben nota Legge di Gravitazione Universale.

Che il R.O. agisca a prescindere da tutte le leggi e considerazioni di ordine chimico-fisico che andrò ad esporre per arrivare alla comprensione del suo meccanismo d’azione è altresì un dato di fatto inconfutabile.

Torniamo allora allo scopo del presente saggio affrontando l’argomento omeopatia con i termini e i caratteri della scienza; e diamo subito come premessa la definizione di stato di salute e di stato di malattia.

Possiamo considerare sano l’organismo al cui interno, nel cuore di ognuna delle sue innumerevoli cellule (dai 60.000 ai 100.000 miliardi) paragonabili ai più sofisticati e perfetti laboratori di chimica e di fisica, tutti i processi mantengono i caratteri tipici delle trasformazioni di equilibrio: un equilibrio dinamico e reversibile per cui tutto si muove affinché tutto resti fermo e tutto sembra fermo proprio perché tutto si muove.

Nel qual caso, ricordiamo, entrambe le direzioni, diretta ed inversa, delle reazioni biochimiche non sono avvertite dall’individuo perché allo stato di salute corrisponde OMEOSTASI e , quindi, assenza di percezione della normale attività biologica delle cellule e dei tessuti.

Nel qual caso ancora l’eliminazione di eventuali fattori estranei ai normali processi fisiologici avverrebbe secondo natura grazie alla VIS MEDICATRIX NATURAE che tutti i medici riconoscono.

Ovviamente l’organismo si ammala quando questo equilibrio dinamico e reversibile viene ad essere perturbato da agenti patogeni i cui effetti tossici siano da attribuire alla loro capacità di inibire la funzione catalitica dei vari enzimi, dal momento che gravi alterazioni, sovente mortali, seguono il turbamento della naturale funzione enzimatica.

Se lo stato morboso, come penso tutti debbano convenire, è un riflesso del tentativo dell’organismo di eliminare le varie tossine, i sintoma del malato, tutti indistintamente quali potremmo elencare: nausea, diarrea, vomito, febbre, traspirazione, catarri, essudati, versamenti, esantemi, emorragie, tosse, starnuti, lacrimazioni, geloni etc., debbono essere considerati come naturale espressione di un impegno da parte dell’individuo ad assecondare l’azione perturbatrice del proprio organismo per ridurne od annullarne in qualche modo gli effetti. Ove il malato, per sua intrinseca costituzione, non riuscisse da solo ad assecondare tale azione per riconquistare lo stato di salute, dovrebbe ricorrere all’unico tipo di rimedio, vale a dire al simillimum omeopatico che risultasse in grado di sostenerlo in questo impegno e non già deprimerlo o stroncarlo come fanno i prodotti allopatici.

Tanto premesso, torniamo agli ENZIMI, sostanze complesse di natura proteica elaborate dagli organismi viventi per consentire e regolare la maggior parte dei processi di equilibrio.

Dotate di un elevato grado di specificità, agiscono a tutti gli effetti da catalizzatori biochimici, sostanze che possono modificare la velocità di una reazione senza subire trasformazione alcuna e senza entrare nella composizione dei prodotti finali.

Di solito la aumentano, nel qual caso vengono considerati catalizzatori positivi; talvolta la riducono e vengono detti catalizzatori negativi, anche se in quest’ultimo caso il catalizzatore negativo agisce per lo più eliminando catalizzatori positivi preesistenti come impurezze.

Giocano un ruolo essenziale nella demolizione e nella costruzione di importanti materiali organici alla relativamente bassa temperatura di circa 37°C, quando gli stessi processi condotti in laboratorio richiederebbero condizioni di temperatura molto più elevate.

Alla luce della TEORIA DELLE COLLISIONI, e della più generale TEORIA DEL COMPLESSO ATTIVATO, per meglio comprendere il meccanismo di azione di un catalizzatore e, di conseguenza di un veleno, diremo che perché una reazione si verifichi è necessario che tra le particelle dei reagenti (atomi,molecole,ioni) avvengano URTI EFFICACI.

Tra i fattori che consentono la realizzazione di urti siffatti ricordiamo: CONCENTRAZIONE dei reagenti; GRADO DI SUDDIVISIONE ed ORIENTAMENTO delle particelle durante gli urti; TEMPERATURA di esercizio; ENERGIA DI ATTIVAZIONE (Ea) della reazione stessa influenzata dalla presenza o meno del catalizzatore.

Relativamente al primo fattore è logico supporre che per interagire i reagenti debbano essere presenti nell’ambiente di reazione in quantità opportuna dettata dalle circostanze e dalle condizioni di esercizio.

Volendo accennare ad esempi piuttosto significativi, diremo subito che per realizzare una saldatura con fiamma ossiacetilenica è importante che i due gas, Ossigeno ed Acetilene, siano sottoposti nelle bombole ad alta pressione perché una elevata concentrazione dei reagenti in corrispondenza del foro di uscita del cannello permette di lavorare in modo molto più rapido ed efficiente dal punto di vista energetico potendosi raggiungere temperature dell’ordine dei 3.000°C.

Per aumentare la Conducibilità Equivalente ( Λ ) di soluzioni di elettroliti forti è necessario invece ridurne la concentrazione sino ad arrivare, come dimostrato sperimentalmente da F. KOHLRAUSCH nel 1900, alle ben note diluizioni infinite, le stesse utilizzate nella preparazione dei R.O.

Relativamente al secondo fattore, la possibilità di contatto tra i reagenti risulterà tanto maggiore quanto più suddiviso sarà il loro stato.

Questo il motivo per cui i reagenti, quando ciò sia possibile, vengono portati allo stato gassoso o disciolti in soluzione così che il mescolamento avvenga in modo rapido e completo. Ma, quel che più conta perché estremamente importante dal punto di vista omeopatico, è che spesso, connessa alla possibilità di dispersione delle particelle di un sistema, dispersione che produce situazioni meno imbrigliate e quindi più libere di agire in modo diretto e non distruttivo, è la tendenza alla dispersione dell’ENERGIA.

Un masso che cadesse dall’alto sulla testa di un passante produrrebbe effetti disastrosi, non certo gli stessi che si avrebbero se il masso venisse prima polverizzato o finemente suddiviso.

La dissoluzione dello zucchero nel tè è da attribuire al fatto che le sue molecole a contatto con l’acqua danno origine a moltissime nuove configurazioni cui automaticamente segue la dispersione di una certa quantità di energia,  in questo caso Energia Potenziale Chimica (Ep).

Il solvente spezza i legami chimici, le cosiddette FORZE DI COESIONE, che obbligavano le molecole di saccarosio ad una rigida ed ordinata disposizione spaziale nel cristallo e l’energia è dispersa in nuovi legami del tipo Dipolo-Dipolo, legami Idrogeno, etc. che si stabiliscono in soluzione tra molecole di acqua e molecole di saccarosio.

Queste ultime, non più imbrigliate in fisse posizioni dello spazio, possono meglio esplicare la loro azione edulcorante arrivando in modo più diretto sui recettori delle papille gustative. Quel che accade alle particelle di resina di conifere quando il loro effluvio giunge alle cellule olfattive esaltato dalla pioggia nel pineto.

E’ significativo il fatto che il concetto di dispersione dell’Energia cominciasse a delinearsi verso la metà del XIX secolo quando già il chimico S. HAHNEMANN aveva intuito la sua importanza ai fini della preparazione del R.O.

Ma concentrazione e stato di dispersione, anche se opportuni, non bastano.

Perché una reazione avvenga le particelle, oltre che urtarsi, debbono anche essere correttamente orientate in modo che gli urti risultino efficaci.

Ora l’esperienza dimostra che, aprendo il rubinetto del gas, il metano non reagisce con l’ossigeno dell’aria pur avendo le molecole dei due reagenti l’opportunità di mescolarsi perfettamente. La reazione, come suol dirsi, deve essere innescata fornendo al sistema una certa Energia con la fiamma di un fiammifero o la scintilla di un accendino. In tal caso le particelle muovendosi molto più rapidamente – basti pensare che alla temperatura di circa 500°C una molecola di ossigeno viaggia alla velocità di 2750 Km/h – avranno maggiore probabilità di urtarsi con urti efficaci, anche se non tutti ovviamente risulteranno tali altrimenti la combustione avverrebbe in pochi istanti.

Come la combustione del metano, anche altre reazioni sono talmente lente da non avere praticamente inizio senza opportuna spinta, il che si spiega ammettendo che al momento dell’urto solo una ridottissima frazione di particelle possegga Energia sufficiente per superare le intense forze repulsive dovute ai loro gusci elettronici.

Se le particelle che si avvicinano non possiedono Energia cinetica (Ec) sufficiente a vincere questa repulsione si comportano come palle da biliardo che collidono a bassa velocità: si scontrano semplicemente, rimbalzano e vengono deviate dalle direzioni iniziali senza interagire.

Quando invece l’impatto avvenisse a velocità e quindi ad Ec maggiore, tra gli elettroni dell’una ed il nucleo dell’altra si verrebbe a stabilire una forza attrattiva e l’interazione si risolverebbe nella formazione di nuovi legami chimici e, quindi, di nuove sostanze.

E’ proprio la trasformazione, al momento dell’urto, della elevata Ec in Energia Potenziale (Ep) che consente al sistema di evolvere verso i prodotti finali.

La quota supplementare di Ep che il sistema deve possedere per subire la trasformazione e che varia da reazione a reazione è detta ENERGIA DI ATTIVAZIONE (Ea) ed è detto COMPLESSO ATTIVATO quell’unica entità labile che per un istante riesce a prendere forma proprio perché i due reagenti possono avvicinarsi così tanto da compenetrare le loro atmosfere elettroniche.

Il complesso poi si romperà dando luogo ai prodotti finali nei quali gli elettroni risulteranno disposti in modo diverso.

E’ il caso del masso che per essere condotto a valle, deve prima superare un dosso più o meno ripido; deve disporre cioè di una Ep maggiore di quella già posseduta, in pratica deve essere sollevato. E’ anche il caso di quei sassi che rotolando lungo un pendio incontrano un avvallamento; solo quelli dotati di Ec sufficiente a superare la barriera di potenziale riusciranno a proseguire la corsa, gli altri si arresteranno.

Per aumentare l’Ec delle particelle di un sistema possiamo usare Catalizzatori od agire sulla Temperatura (T). Esiste infatti una relazione di diretta proporzionalità tra le due grandezze fisiche ma poiché le reazioni biochimiche debbono necessariamente avvenire alla modesta T di 36-37°C (non possiamo certo farci venire la febbre per digerire più in fretta!), ecco per l’organismo la felice opportunità di disporre degli ENZIMI quali CATALIZZATORI biologici.

Di solito queste sostanze di natura PROTEICA accelerano la reazione determinando una diminuzione del valore della Ea. Ai reagenti è consentito così di evolvere sempre verso gli stessi prodotti finali ma attraverso un percorso alternativo; attraverso un meccanismo cioè che richieda una Ea più bassa rispetto a quella tipica della reazione non catalizzata cosicché, a parità di T, una maggiore percentuale di molecole-particelle dei reagenti possa superare la barriera trasformandosi nei prodotti:

 

A diagram of a normal distribution

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La struttura di queste proteine è tale da presentare una concavità indicata con il termine di “SITO ATTIVO”, luogo nel quale si ritiene debba avvenire la reazione. E, perché avvenga, il SUBSTRATO, ovvero la molecola-particella sulla quale l’enzima andrebbe ad agire per costituire il Complesso Attivato, deve essere in grado di adattarsi al sito attivo con la stessa complementarità e specificità con cui una chiave entra nella propria serratura.

Solo allora la molecola- particella del substrato potrà interagire con il partner per realizzare la trasformazione richiesta (sia essa neutralizzazione acido-base, reazione redox, idrolisi, fosforilazione, sostituzione, sintesi come nella Glucuronazione il cui enzima responsabile è la Glucuronil-Transferasi, e così via) e rilasciare alla fine l’enzima libero ed inalterato.

Si può ben comprendere a questo punto del discorso come l’effetto tossico di un veleno debba coincidere con l’inattivazione dell’enzima.

Il veleno si sostituisce al substrato legandosi al sito attivo dell’enzima così stabilmente da bloccarlo in modo irreversibile o, in alternativa, legandosi all’enzima in sito diverso dal sito attivo, provocandone così una distorsione e rendendolo quindi inutilizzabile per il sostrato. Salvo poi considerare l’azione inibitrice del veleno a carico di altre strutture connesse con la funzione enzimatica quali Coenzima e substrato stesso.

E’ in ogni caso indispensabile –conditio sine qua non- che l’inibitore abbia rispetto al sostrato STRUTTURA SIMILE od anche ANALOGIA DI REATTIVITA’, come accade ad esempio tra Ossigeno (substrato) e monossido di Carbonio (veleno inibitore) nella sintesi preferenziale della Carbossiemoglobina, ovvero tra Acido Amminobenzoico (substrato) ed Ammide dell’Acido Solfanilico (veleno inibitore) nella sintesi dell’Acido Folico a livello batterico.

Ed è altresì in ogni caso indispensabile, ai fini dell’azione tossica di un veleno, che esso possieda un adeguata permeabilità cellulare.

Si può verificare infatti che una sostanza tossica risulti attiva in VITRO su di un determinato enzima ma inattiva in VIVO, non essendole consentito di attraversare la membrana cellulare per penetrare all’interno della cellula; come si può dare il caso inverso quando la sostanza abbia in se la capacità di modificare la propria permeabilità cellulare.

Quando, come negli esempi proposti, inibitore e substrato concorrono entrambi a reagire con lo stesso sito attivo della molecola enzimatica si ha INIBIZIONE COMPETITIVA che può, a sua volta, essere considerata REVERSIBILE se scompare per rimozione dell’agente tossico, IRREVERSIBILE in caso contrario quando cioè può essere vinta solo se è possibile rigenerare l’enzima per via chimica. L’inibizione competitiva irreversibile differisce inoltre dalla reversibile per essere progressiva nel tempo a patto che il veleno inibitore risulti in concentrazione sufficiente a combinarsi con tutto l’enzima presente.

Quando invece i veleni si legano all’enzima in siti non attivi abbiamo INIBIZIONE NON COMPETITIVA e ciò accade in genere se le molecole degli enzimi presentano gruppi SULFIDRILICI (-SH) i quali possono dar luogo a vere e proprie combinazioni chimiche od essere ossidati e trasformati in strutture di tipo Perossidico (-S-S-).

Si spiegherebbe così l’azione tossica dell’Arsenico, il veleno preferito dagli scrittori di romanzi gialli, e quella di alcuni metalli pesanti quali Mercurio, Piombo, Rame, etc..

Ingerito come ione Arseniato, viene ridotto ad Arsenico trivalente il quale è in grado di formare legami con i gruppi sulfidrilici di numerosi enzimi inibendone l’attività catalitica. Tra questi, di gran lunga più importanti, gli enzimi che sovrintendono alla produzione di Energia cellulare nei mitocondri del citoplasma di cellule animali e vegetali. Ecco far capolino la Legge di SIMILITUDINE  che giustifica ampiamente la prescrizione di Arsenicum Album nelle gravi forme di astenia.

Non mi dilungherò oltre con l’esposizione dei vari casi di Inibizione non competitiva.

Mi basterà accennare per tutti all’avvelenamento prodotto da GAS NERVINI e da insetticidi a base di ESTERI FOSFORICI usati in agricoltura come anticrittogamici.

L’intossicazione che comporta turbe della visione, nausea, vomito, convulsioni ed asfissia, avviene per in attivazione della COLINESTERASI, l’enzima che deve assicurare con estrema rapidità l’idrolisi della Acetilcolina a Colina ed Acido Acetico una volta avvenuta la trasmissione dell’impulso nervoso da cellula a cellula del Sistema Nervoso centrale.

La combinazione di tali sostanze con la Colinesterasi da luogo a composti molto stabili e comporta quindi la disattivazione dell’enzima per tempi più o meno lunghi.

L’Acetilcolina, non potendo essere idrolizzata, procura ripetute stimolazioni al nervo ed, in definitiva, agli organi che questo comanda; in  pratica, l’organismo soccombe al veleno che esso stesso produce.

Una volta ripristinato l’enzima, l’idrolisi è di nuovo possibile ed il peggio si può dire scampato:

 A black line with black text

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Ovviamente anche l’inattivazione dell’ACETILASI comporta gravi forme di intossicazione dal momento che, ad idrolisi avvenuta, non è più possibile riottenere l’Acetilcolina.

Agiscono in tal senso la tossina BOTULINICA, la sostanza più velenosa che sia oggi conosciuta (bastano appena 0,12 milionesimi di  g  per uccidere un uomo; poco più di 400 g sarebbero sufficienti ad annientare l’intera umanità), e quelle prodotte da alcune microalghe della famiglia delle Dinoflagellate.

Alla luce delle considerazioni espresse sulla funzione dei vari agenti tossici e, quindi, sulla causa delle nostre sofferenze, quale dovrà essere il meccanismo d’azione del R.O.?

Meglio forse usare il termine “Ipotesi” di meccanismo d’azione, anche per non avanzare grosse pretese.

Personalmente ritengo che sia possibile studiare chimicamente solo tutto ciò che entra od esce dall’organismo vivente, restando nascosto allo sguardo dell’uomo di scienza tutto ciò che avviene al suo interno. Per usare termini più autorevoli, quelli del grande chimico svedese G.BERZELIUS (1779-1848), contemporaneo di Hahnemann: “… Il più alto livello cui possiamo giungere è la conoscenza della natura delle cose prodotte, mentre siamo per sempre esclusi dalla possibilità di spiegare il modo in cui esse si formano.”

Concetto del tutto analogo a quello espresso in altri termini dallo scienziato americano C.S.LEWIS (189-1963), inventore del gas bellico Lewisite: ”… Le leggi del moto non mettono in movimento palle di biliardo; esse analizzano il movimento dopo che qualcos’altro lo ha azionato.”

Il R.O. deve essere considerato senza alcun dubbio sostanza tossica, seppure a dosaggio infinitesimale. Somministrato infatti ad un essere sano, provoca in esso, secondo un meccanismo probabilmente analogo a quelli descritti in precedenza, tutta una serie di sintoma caratteristici e specifici del rimedio, quelli classici della sperimentazione pura che si possono leggere in ogni manuale di materia medica.

Si tratta pur sempre di veleni prelevati dal regno animale, vegetale e minerale!

Ma l’organismo sano, per quanto già detto al riguardo, durante e dopo la somministrazione, reagisce nei termini e nei modi suggeriti dal Principio dell’Equilibrio Mobile per tornare in breve tempo allo stato di salute.

Se può servire il ricorrere ancora a modelli del reale, potremmo paragonare le oscillazioni di un tale organismo alle oscillazioni di una bilancia.

All’equilibrio, l’assunzione del Rimedio-Proving avrebbe l’effetto di una momentanea perturbazione, come in caso di patologia acuta, al pari di un improvviso colpo di vento, di una spinta esercitata a mano su di un piattello che non impedirebbe all’indice di riportarsi allo zero attraverso le normali oscillazioni.

Ma se squilibrata da una forza perturbatrice che gravando su di un piattello sposti l’indice a fondo scala (oltre potrebbe già essere fatale!), come è per analogia il caso del paziente che accusi miasma cronico e non riesca, per sua naturale costituzione, a liberarsi delle tossine che ostacolano il processo di guarigione, allora il R. o i vari RR. ripetuti nel tempo andrebbero visti come la o le forze necessarie ad allontanare dal piattello il grave responsabile delle condizioni di stallo così da consentire all’indice di tornare ad oscillare fino a riportarsi all’equilibrio.

Dal tipo e dal numero delle oscillazioni il fisico, ovvero il medico, potrebbe già azzardare una eventuale prognosi.

La o le tossine dei R.O. debbono necessariamente possedere, ripetiamo, struttura simile o presentare analogia di reattività nei confronti delle sostanze che nell’organismo del malato inibiscono la funzionalità enzimatica così che queste ultime preferiscano legarsi ad esse lasciando campo libero al substrato.

Il soccorritore di un individuo aggredito deve essere a sua volta un aggressore.

SIMILIS AD SIMILEM, quindi, SIMILIA SIMILIBUS CURENTUR

Che sia questo il criterio adottato dalla medicina ufficiale in moltissimi casi di avvelenamento, non v’è dubbio. L’antidoto è sempre un veleno dalle caratteristiche chimico-fisiche simili a quelle della sostanza che ha determinato lo stato di malattia.

Il siero antivipera, il narcan, tutti gli antidoti delle varie sostanze usate in anestesia per l’uomo e per l’animale, il BAL (British anti-Lewisite), antidoto della Lewisite messo a punto da un gruppo di tecnici inglesi durante la seconda guerra mondiale, sono solo alcuni degli esempi che potremmo citare.

Una volta accertata l’azione letale del Gas bellico che ha mietuto vittime per la sua capacità di combinarsi con i gruppi Sulfidrilici (-SH) delle proteine enzimatiche, vennero sperimentate, come antidoti, sostanze semplici contenenti gruppi siffatti e fra queste il BAL risultò essere il più efficace proprio in virtù della sua analogia di reattività.

Non si comprende quindi come tale criterio non debba poi valere in omeopatia!

Il paziente che accusi sintoma tipici e peculiari del suo modo di soffrire presenta un quadro morboso da inibizione enzimatica dovuta il più delle volte a tossine sconosciute.

Ma il medico omeopatico e soltanto il medico omeopatico che avesse una perfetta padronanza della materia medica saprebbe riconoscerle in quanto simili indubbiamente, per comportamento, a quelle presenti nel R.O. che fosse in grado di suscitare nell’essere sano analoga espressione morbosa.

Oltre alle varie tossine e, quindi, ai R.O. che agiscono da inibitori specifici del singolo enzima o dell’enzima che si trovasse all’inizio o quasi di una sequenza di reazioni nei vari sistemi multienzimatici anche il prodotto finale di queste sequenze potrebbe giocare lo stesso ruolo e determinare con la sua concentrazione la velocità dell’intera sequenza.

Si parla in tal caso di Inibizione da FEED-BACK o RETROAZIONE e l’enzima inibito dal prodotto finale, ovviamente il primo della sequenza stessa, è detto “ENZIMA ALLOSTERICO”.

In molti enzimi, oltre al sito attivo principale cui abbiamo accennato, generalmente a forma di sacca o tazza e destinato al sostrato, sono presenti altri siti attivi che fungono da recettori per segnali chimici costituiti da piccole molecole, specifiche per ciascun enzima, che si comportano da “Effettori Allosterici”.

La presenza od assenza di tali molecole su siti attivi secondari, determinando variazioni configurazionali o conformazionali dell’enzima, influenzerà la capacità di adattamento del sostrato all’enzima e, quindi, l’attività stessa dell’enzima.

Diamo un esempio piuttosto semplice di un possibile schema di regolazione dei processi cellulari. Consideriamo una qualsiasi catena di reazioni il cui prodotto finale risulti un intermedio o un precursore nella sintesi di macromolecole.

Ove la sintesi di tale precursore superasse le reali necessità della cellula e la sua concentrazione aumentasse oltre un certo valore, una sua molecola, fissandosi come effettore allosterico su ciascuna molecola dell’enzima specifico della prima reazione della catena, lo renderebbe inattivo bloccando così automaticamente il processo di sintesi. Questo potrebbe nuovamente riprendere il via quando la concentrazione del precursore diminuisse fino a determinare la dissociazione dell’enzima dall’effettore allosterico.

Si può dire che l’intera chimica della cellula risulti regolata da una fittissima rete di dispositivi biochimici siffatti che agiscono come circuiti di contro reazione la cui logica, impossibile da decifrare, costituisce uno dei più ambiziosi ed affascinanti campi di ricerca della biofisica.

E’ facile intuire a questo punto del discorso quali e quanti danni irreparabili possano essere arrecati alle cellule del nostro organismo da tutti i prodotti dell’industria farmaceutica, pieni zeppi oltretutto di eccipienti e prescritti in dosi massicce senza la benché minima giustificazione logica e tanto meno scientifica se non quella di distruggere condizioni di equilibrio e capacità reattiva della cellula stessa.

L’unica possibilità di cura consiste nell’aiutare l’organismo ad eliminare le proprie tossine, non già nell’aggravare la situazione con l’introduzione di altri veleni nell’organismo stesso.

Abbiamo visto il R.O. agire, nell’essere sano, in competizione con il sostrato e, nel malato, in competizione con il veleno inibitore. Il che significa che si deve dare per certa la presenza nel rimedio di piccole e singole unità molecolari che abbiano la capacità o di sostituirsi al sostrato, o di modificare in qualche modo la conformazione dell’enzima così da provocare la dissociazione del veleno dall’enzima stesso con conseguente sua liberazione da parte degli apparati emuntoriali dell’organismo.

Potremmo formulare al riguardo due possibili schemi di comportamento:

• Nel primo dovremmo ammettere l’eventuale formazione tra veleno e tossina del R.O. di un complesso più stabile, per legge di similitudine, di quello inizialmente venutosi a creare tra veleno ed enzima. Complesso che, per dimensioni e struttura non potendo più aderire perfettamente alla sacca dell’enzima, verrebbe espulso;

• Nel secondo vedremmo la tossina del R.O. fissata come Effettore Allosterico su sito attivo diverso dal principale; in grado quindi di creare azione di disturbo che modificherebbe in qualche modo l’assetto o la conformazione dell’enzima stesso fino a determinare l’espulsione del veleno.

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Di qui la necessità, ripetiamo, che le due tossine contrapposte, quella responsabile dello stato di malattia e quella del R.O., presentino struttura simile od analogia di comportamento.

L’azione richiederebbe inoltre un intervento altamente mirato e specifico quale solo potremmo ottenere con singole particelle di rimedio che conservino inalterate le proprietà caratteristiche della sostanza considerata a livello ponderale. Le stesse poi dovrebbero possedere Energia sufficiente a che l’urto risultasse efficace, nel senso di consentire alla reazione di aver luogo e di aver luogo soltanto in una particolare zona sensibile dell’enziea. Condizione questa, espressa come FATTORE STERICO, di notevole importanza in tutti quei processi in cui siano interessate grandi molecole organiche come le molecole delle proteine enzimatiche per le quali la possibilità stessa di reagire risiede soltanto in particolari zone della molecola.

Di qui pertanto la necessita di portare il GRANO iniziale di sostanza pura ad uno stato di estrema suddivisione attraverso TRITURAZIONE e DILUIZIONI successive.

Già la triturazione ha l’effetto di spezzare i legami e sgretolare la compagine strutturale di quell’enorme ammasso di particelle (atomi,molecole,ioni) che costituiscono il grano.

Come da nota al Par.270 dell’ORGANON di Hahnemann, un grano di Zolfo corrisponde a 0,072g di questo elemento che, per definizione di Mole e di Numero di Avogrado, sono la massa di ben 1.350.000.000.000.000.000.000 (1,35 1021) atomi di zolfo. Un vero e proprio oceano di particelle!

Se da un lato la triturazione comporta una polverizzazione sempre più finemente suddivisa della sostanza di partenza, dall’altro essa deve indubbiamente impartire ai singoli granellini un qualche grado di elettrizzazione (Elettrizzazione per strofinio) dal momento che sostanze naturalmente insolubilh in acqua perché non ioniche e non polari dopo il trattamento si dissolvono facilmente in una miscela idroalcoolica, come lo stesso Hahnemann fa notare nella descrizione della preparazione dei vari rimedi.

Va comunque precisato che la polvere così ottenuta, anche se talmente sottile da risultare quasi impalpabile, contiene in sé unità costitutive che risultano essere ancora aggregati di particelle seppure di forma e dimensioni più ridotte.

Le Forze di COESIONE in gioco sono infatti molto intense e sempre in competizione con quelle disgregative della triturazione o dissociative delle diluizioni.

Mai dovremmo dimenticare la loro coesistenza che non consente di fare previsioni in merito al numero di particelle che riescono a trasferirsi da un recipiente all’altro ad ogni successiva fase di preparazione del rimedio. Perché mai dovremmo dimenticare che nel grano iniziale, come pure nei vari granellini di polvere ottenuti per triturazione, non risultano presenti unità singole ed indipendenti da poter contare ed individuare al pari di tante palline separate e libere di muoversi in ogni direzione dello spazio.

All’azione disgregativa della triturazione si contrappone sempre la forza aggregante dei legami chimici, quelli che devono essere continuamente indeboliti perché le particelle esplichino al meglio le loro caratteristiche e le loro proprietà.

Chi si trovasse nelle vicinanze di una cipolla intiera non ne avvertirebbe quasi la presenza perché le particelle imbrigliate nel bulbo non avrebbero la possibilità di arrivare ai recettori olfattivi e dare quei sintoma tanto fastidiosi che si manifestano già al semplice taglio senza bisogno di arrivare alla triturazione. Allium Cepa è infatti il rimedio del caso.

La successiva diluizione della polvere ottenuta per triturazione avrebbe quindi lo scopo di dissociare ulteriormente le suddette particelle.

Ai legami di tipo covalente, ionico, metallico, o di altra natura, si sostituiscono, come già detto, legami di natura diversa che si stabiliscono tra le stesse particelle e le molecole del solvente (Acqua ed Alcool).

Per usare termini più specifici e più tecnici, vengono idratate secondo un processo detto di solvatazione che consente ai chimici di immaginarle come incapsulate da un velo di acqua o di alcool dello spessore di una o più molecole.

E’ logico supporre che per progressive diluizioni il trasferimento di gocce da una boccetta all’altra comporti comunque il contemporaneo trasferimento di unità di R.O., con la sola conseguenza che tali unità risulterebbero sempre meno vincolate dalle reciproche forze di coesione e sarebbero quindi in grado di agire sull’enzima con la dovuta Energia e con l’alta specificità richiesta.

A livelli di diluizione sufficientemente elevata risulterà ovviamente impossibile accertare la presenza nei vari preparati omeopatici di masse tanto imponderabili quali quelle delle singole particelle. Ci verremmo a trovare di fronte alla stessa difficoltà che incontrò DALTON quando per primo propose la sua TEORIA ATOMICA DEGLI ELEMENTI e, per primo, si rese conto dell’impossibilità di misurare direttamente le masse assolute dei singoli atomi, masse tanto piccole ( dell’ordine di 10 -27  Kg ) da non poter essere sentite da alcuna bilancia.

Non per questo la loro presenza andrebbe messa in discussione dal momento che i fatti dell’esperienza la confermano. Del resto, chi mai negherebbe la presenza di particelle di caffè in recipienti di vetro usati come contenitori della sua polvere anche dopo che siano stati ripetutamente lavati quasi all’infinito? Sono in tal caso le Forze di ADESIONE a trattenere le particelle sulle pareti del recipiente, le stesse forze che permisero a Korsakow di sperimentare sul campo di battaglia un nuovo metodo di diluizione identificata nelle preparazioni dalla lettera K.

Ma veniamo ora alla pratica delle SUCCUSSIONI. Anche in soluzione tra i due processi quello dissociativo operato dal solvente e quello aggregativo dovuto alle forze di coesione si stabilisce il solito equilibrio dinamico e reversibile, come vuole il Principio di Le Chatelier-Braun, principio che governa fenomeni chimici vale a dire tutte le reazioni di equilibrio del nostro organismo, ma anche fenomeni fisici rappresentati dai passaggi di stato e dai processi di dissoluzione.

Un bell’esempio, a questo punto del discorso, potrebbe meglio chiarire il concetto dello scopo delle successioni.

Tutti i medici conoscono la gloriosa Tintura di Iodio quale soluzione di Iodio e Ioduro di Potassio in miscela idroalcoolica. E tutti i chimici sanno che in una soluzione satura di Iodio in alcool (soluzione che contenga alla Temperatura di esercizio il massimo numero possibile di molecole di Iodio disciolte, in equilibrio con una certa quantità di iodio solido depositato sul fondo del recipiente ) la concentrazione dello iodio in soluzione rimane costante nel tempo.

Se ora aggiungiamo al sistema in equilibrio alcuni cristallini di iodio contenenti l’isotopo radioattivo  I-131, noto alla classe medica per essere usato nella diagnostica delle malattie della tiroide, vediamo i cristallini depositarsi sul fondo essendo la soluzione satura. Ma se dopo un certo tempo sottoponiamo ad esame un campione della soluzione lo troviamo radioattivo. Evidentemente dello iodio solido marcato con l’isotopo deve avere abbandonato il precipitato presente sul fondo del recipiente per passare in soluzione; ma, poiché la concentrazione della soluzione rimane costante, dobbiamo ammettere che una eguale quantità di iodio  dalla soluzione sia passata, per cristallizzazione, allo stato solido.

Macroscopicamente non avvertiamo nulla di quel che accade nel sistema, ma possiamo affermare con assoluta certezza che anche quando il processo sembra si sia arrestato - la soluzione era e resta sempre satura - in realtà entrambi i fenomeni, la dissociazione e la cristallizzazione, continuano ad avvenire sotto i nostri occhi.

Tornando alla pratica delle succussioni scopriamo quindi che esse hanno lo scopo di favorire meccanicamente il processo disgregativo già operato chimicamente dal solvente il quale verrebbe così aiutato nella sua azione di indebolimento dei legami esistenti tra le particelle - legami che tenderebbero naturalmente a riaggregarle - a tutto vantaggio di una sempre maggiore dispersione della materia e, quindi, dell’Energia ad essa associata cosicché la tossina  del R.O. possa meglio assumere i caratteri di tossina a dosaggio terapeutico.

Abbiamo dato del R.O. il profilo tossicologico; affrontiamo ora il discorso anche dal punto di vista terapeutico dicendo subito che una siffatta trattazione giustifica le basse dinamizzazioni nei casi acuti, laddove è compromesso l’equilibrio di molti processi biochimici, e di alte dinamizzazioni nei casi cronici, laddove la singola nota discordante fa immancabilmente ripetere all’interprete lo stesso errore - e risentire al paziente gli stessi sintoma - che altera pur sempre l’armonia dell’intera esecuzione.

Se poi dobbiamo ammettere con assoluta certezza che nel grano iniziale come pure nella T.M. la sostanza tossica risulti presente in dose ponderale e se, come esperienza dimostra, l’individuo sano si ammala in seguito ad assunzione del rimedio- proving accusando tutta una serie di sintoma che disturbano l’organismo a vari livelli sia sul piano fisico che psichico, dobbiamo necessariamente ritenere valido anche in omeopatia il Principio di Conservazione della Materia. E non possiamo certo arrivare, senza assurdi ed ingiustificati contorsionismi mentali, alla considerazione che il R.O. contenga in se la memoria della sostanza di partenza, ovvero non ben precisati Quanti di Energia prodotti da una ipotetica trasformazione Massa           Energia realizzabile soltanto nel campo delle reazioni nucleari.

Ove infatti si supponessero presenti nei globuli omeopatici quanti indefiniti di Energia derivati in qualche modo dalle varie manipolazioni eseguite sulla sostanza di partenza, l’Energia nel tempo dovrebbe degradare a Calore in virtù delle interazioni ( Urti ) tra globuli stessi e tra globuli e pareti del contenitore. E se il meccanismo che permette all’enzima di tornare a svolgere la propria funzione, anziché in termini di segnali molecolari, dovesse risolversi attraverso un eventuale apporto di energia da parte del R.O., non sarebbe giustificata la necessità di ripetere la somministrazione di dosi della stessa dinamizzazione, nè si vedrebbero mai insorgere nei pazienti RISENTIMENTI od AGGRAVAMENTI OMEOPATICI.

Il fatto stesso che il più delle volte siano proprio queste ripetute somministrazioni a risolvere un caso sta a significare che gli IMPULSI trasmessi debbono avere in qualche modo carattere massivo. Del resto la grandezza Impulso (I) vale il prodotto F x t dove la FORZA (F) è definita a sua volta dalla relazione: F = m x a. A  MASSA (m) nulla corrisponderebbero Forza ed Impulso nulli.

Che comunque il R.O. agisca in definitiva sull’organismo a livello energetico è un dato di fatto implicito nella funzione stessa degli enzimi quali catalizzatori biochimici.

Come abbiamo visto, le proteine enzimatiche consentono ai reagenti delle varie reazioni cellulari di evolvere verso i prodotti finali attraverso un meccanismo che richieda una Ea più bassa rispetto a quella tipica del processo non catalizzato per cui, una volta ripristinata attraverso opportuna terapia omeopatica l’attività funzionale di tali molecole, potremmo a buon diritto ritenere di aver agito sull’aspetto energetico del processo.

Sempre dal punto di vista terapeutico è altresì giustificata la rispondenza al Principio Omeopatico di Guarigione secondo il quale la salute si riconquista attraverso un processo di eliminazione tossinica; processo da intendersi in senso dinamico e reversibile per cui i vari risentimenti del paziente sottoposto a trattamento omeopatico andrebbero visti come ripetuti tentativi del sistema di oscillare nei due versi fino a ritrovare il perfetto equilibrio.

Da qui la necessità per il medico omeopatico di saper individuare e valutare sapientemente tutte le divisioni sfiorate dall’indice in questo percorso obbligato a ritroso, vale a dire, tutti i sintoma che soli possono guidarlo nella scelta del rimedio più opportuno: il SIMILLIMUM.

Perché un’ipotesi trovi favorevole accoglienza in campo scientifico, nel nostro caso in campo medico, deve poter essere suffragata dai risultati dell’esperienza.

L’omeopata deve poter trovare conferma e conforto in quanto è stato esposto, nel senso che prescrizioni e relative reazioni dei pazienti debbono essere ampiamente spiegate e giustificate.

Mai, ad esempio, il R.O. ben scelto dovrebbe dar luogo nel paziente a sintoma diversi da quelli tipici e caratteristici della sua storia biopatogenetica. Sintoma nuovi sarebbero sintoma del Rimedio, ma la sperimentazione o proving che dir si voglia non è davvero consigliabile ad un individuo già sofferente!

Solo l’essere sano può garantire la perfetta e completa eliminazione delle varie tossine ingerite; ecco il perché della necessità di una corretta prescrizione basata sulla Legge di Similitudine, legge sovrana in omeopatia come in ogni altro campo della scienza.

Un R.O.non simile, o meglio ancora non simillimum, non potrebbe agire in modo efficace e specifico sugli enzimi che siano stati disattivati od inibiti da precedenti tossine perché queste non lo riconoscerebbero come l’acqua non riconosce il grasso di una macchia di unto sul tessuto.

Un tale rimedio provocherebbe semmai l’inattivazione di altri enzimi con conseguente comparsa di nuovi sintoma mai prima avvertiti, in quanto sintoma propri del rimedio.

Per il paziente ciò comporterebbe uno stato di maggiore intossicazione che indebolirebbe ulteriormente la sua già precaria capacità di ripresa e complicherebbe oltretutto l’iniziale quadro clinico.

Nel Par.159 dell’ORGANON di Hahnemann si parla di AGGRAVAMENTO, definito dallo stesso Hahnemann “Malattia da medicamento”, anche nel caso di prescrizione corretta secondo Legge di Similitudine e si precisa al riguardo: ”Questo apparente aggravamento di malattia, nelle prime ore, è tanto minore per intensità e durata, quanto più piccola è la dose del R.O.”

Il che è comprensibile in quanto la tossina del R.O., sia essa vista come Effettore Allosterico o come unità complessate, deve comunque esercitare, subito dopo l’assunzione, un’azione peggiorativa sommandosi all’azione inibitrice propria del veleno che determini lo stato di malattia.

Che poi questa esaltata azione di disturbo all’attività funzionale dell’enzima possa rivelarsi del tutto salutare essendo in grado di stimolare i vari processi emuntoriali, con conseguente eliminazione di entrambi i veleni e scomparsa della malattia originaria,è una eventualità strettamente legata, a mio avviso, alla capacità reattiva dell’individuo.

Personalmente ritengo che l’aggravamento debba essere considerato proporzionato non tanto alla dose del R.O. quanto piuttosto all’intensità dello stato morboso ed a questa sensibilità reattiva dell’individuo.

Se lo stato morboso, per quanto è stato detto, è un riflesso del tentativo dell’organismo di eliminare le proprie tossine, dovremmo riscontrare aggravamenti più vistosi in quei casi nei quali il paziente, proprio perché più intossicato, manifesti in modo più marcato e più urgente la necessità di liberarsi delle tossine.

L’importante è che l’organismo sia in grado di manifestare, attraverso i propri apparati emuntoriali, tutti i vari e ripetuti tentativi di liberazione tossinica perché al medico sia consentito avanzare l’ottimo pronostico di cui si legge al Par.158 dell’Organon di Hahnemann. 

Il medico omeopatico dovrebbe temere invece per quei casi in cui questa tendenza non si manifestasse in modo palese perché, pur avvalendosi della legge di similitudine, non riuscirebbe ad ottenere il risultato sperato.

Purtroppo l’individuo approda all’omeopatia quando ormai certe condizioni di disagio e di sofferenza sono ben consolidate senza sapere che le condizioni ultime sono naturale conseguenza delle precedenti; di tutte quelle deviazioni cioè che l’indice della nostra bilancia ha di volta in volta toccato per arrivare a fondo scala.

Una storia biopatogenetica, progressiva nel tempo, segnata da ripetuti e successivi tentativi di eliminazione tossinica per cui è logico aspettarsi che le prime barriere a cedere siano proprio quelle che più disturbano il paziente al momento della prima visita. Ed esse verranno meno nell’ordine descritto dalla Legge di Guarigione di HERING, vale a dire dall’alto dell’organismo verso il basso, dal centro alla periferia, dall’interno verso l’esterno e dagli organi più importanti a quelli meno importanti.

E, come per l’indice della bilancia che bloccata a fondo scala deve ripercorrere tutte le deviazioni, dall’ultima alla prima, per ritornare allo zero, così accadrà al nostro paziente.

Ma l’indice tornerà all’equilibrio solo dopo aver effettuato più volte nei due sensi oscillazioni di ampiezza via via più ridotta; allo stesso modo il nostro paziente potrà ritrovare la salute solo attraverso una terapia che gli consenta di risentire o ripercorrere tutte le varie tappe obbligate, dall’ultima alla prima, del suo soffrire.

Pongo volutamente l’enfasi sul “TUTTE” quasi a voler rinnovare l’invito rivolto dal grande SOCRATE ai medici del suo tempo: ”…. Non permettere che alcuno ti convinca a curarlo se prima non ti abbia aperto il suo animo,  giacché il grande errore che commettono i medici del nostro tempo nel sanare le infermità, è di considerare separati lo spirito dal corpo. Non si può guarire l’uno senza curare l’altro. Dalla mente procede infatti sia il bene che il male, di lì irradiandosi al corpo ed all’uomo tutto intero”. ( Socrate - 409 a.C.- citato da Platone nel Charmides )

Quale altra medicina potrebbe mai competere in tal senso con l’omeopatia e vantare dalla sua leggi, principi e tecniche di preparazione dei rimedi tanto raffinate e mirate da consentire al medico di attuare lo scopo principale ed unico della sua professione, quello descritto dallo stesso Hahnemann nel Par.1 dell’Organon: ” Scopo principale ed unico del medico è di rendere sani i malati ossia, come si dice, di guarirli”.

 

Il Genio, si sa, intuisce meglio degli altri e precorre sempre i tempi.